I DIRITTI DEI POPOLI E QUELLI DELLA PERSONA UMANA
La ormai prossima ricorrenza del settantesimo anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dellUomo, promulgata il 10 dicembre 1948 dalla Assemblea Generale delle Nazioni Unite riunita per loccasione a Parigi, impone una riflessione generale, perché mai come in questo momento, in cui tali diritti vengono se non calpestati, certamente disattesi, è urgente un esame di coscienza collettivo in merito alla loro applicazione e al loro rispetto allinterno degli stati, nonché – nel contesto della globalizzazione mondiale tra governi di alcuni stati e cittadini esteri.
Nel trattare dei diritti umani è quasi inevitabile considerare, per noi europei soprattutto, come punto di riferimento la Rivoluzione francese e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino promulgata nell’agosto del 1789 dall’Assemblea Nazionale Costituente di Francia. Questa è per noi un riferimento imprescindibile anche perché serve a cogliere un dato culturale di grandissima importanza, che si identifica col concetto stesso di «diritti dell’uomo». Questo concetto come fa notare Francois Rigaux (La carta di Algeri, ECP, Firenze 1988, pag. 22) – «trae origine dalla filosofia illuministica, che aveva la pretesa di astrarre una quintessenza dell’umanità, liberata dalle particolarità spazio-temporali, ma anche dai condizionamenti economici e sociali, dagli «ordini» o dagli «stati», come venivano chiamate le classi sociali alla fine del XVIII secolo, ordini che il progetto rivoluzionario aveva la ferma volontà di abolire».
Una siffatta concezione, se ha il pregio di affermare il primato della persona umana (la cui essenza è poi implicitamente definita dai diritti di cui è considerata soggetto), pecca bensì di astrattezza, perché fa passare in secondo piano i diritti dei popoli. Questi, invece, vanno esplicitamente riaffermati e concretamente garantiti, perché è in relazione al loro sussistere che quelli della persona possono trovare effettivo riconoscimento e sicura attuazione. Infatti – come è stato opportunamente scritto in un articolo pubblicato su Ricerche Didattiche, n. 312-313 (1988) a firma di E. Bergomi e P. Danuvola – «i diritti individuali non possono essere praticati fuori della comunità sociale in cui ogni persona è inserita: i diritti personali s’incarnano nei diritti dei popoli».
Vogliamo subito precisare che col termine «popolo» intendiamo, sì, il concetto giuridico di «insieme di persone fisiche organizzate entro un unico stato»( Enciclopedia Universale Fabbri, vol. X), ma bensì con tutta la pregnanza umana che esso contiene quando si pensa a un insieme di persone unite da una comune coscienza critica sul piano dei valori, nonché soggetto di diritti quali sono la sovranità (come è sancito dalla nostra Costituzione) e il potere di esercitarla «nei limiti e nelle forme» da lui stesso volute (Art. 1). Esso è poi l’elemento che fa dello stato una persona nei confronti degli altri stati, legittimandone la sovranità, mentre ne giustifica il possesso del territorio.
Il discorso sul concetto di popolo sarebbe assai lungo e perciò diventa improponibile nell’ambito di una riflessione che deve essere breve ed è volta a considerare realtà vicine alla esperienza comune piuttosto che a svolgersi su questioni di notevole spessore culturale e di spiccato taglio teoretico.
Tralasciando del tutto di considerare il concetto di popolo nell’antichità classica e sorvolando su un vasto arco di secoli successivi, andiamo a cogliere il nostro punto di riferimento in un fatto cruciale per la definizione del ruolo popolare nella politica degli stati e nella storia. Mi riferisco alla Gloriosa Rivoluzione di Guglielmo III d’Orange del 1688, la quale, cancellando con la deposizione di Giacomo II una monarchia assoluta, segna la nascita dei regimi costituzionali moderni.
In siffatta nuova concezione del potere cambia anche il ruolo del popolo nell’esercizio di esso. Mentre, infatti, le monarchie dinastiche assolute, il cui potere era considerato di derivazione divina, erano legate esclusivamente al territorio, adesso il popolo acquista un significato essenziale e imprescindibile nella determinazione dello stato. Corrispondentemente, ad un esercizio del potere inteso come missione carismatica universale, si sostituisce quello configurantesi nell’assolvimento di un mandato particolare volto alla salvaguardia di certi specifici diritti, affermati costituzionalmente, e degli interessi politici a questi connessi dalla società.
Con la Rivoluzione Francese il popolo sovrano acquista i connotati della nazione, la cui unità culturale e linguistica diventa il fondamento dell’unità e indivisibilità della repubblica. Questo concetto del potere legato alla nazione sorreggerà la tendenza alla formazione di stati nazionali e alimenterà i moti irredentisti del secolo scorso e dell’inizio del nostro secolo.
Alla affermazione dell’idea di stato nazionale «come nuova forma di organizzazione politica», insieme alla filosofia illuministica e alle grandi rivoluzioni dell’ultimo quarto del secolo XVIII, contribuì certamente come sottolinea il Rigaux (Op.cit., p. 15) anche la filosofia tedesca della prima metà dell’Ottocento. Ma la forte coloritura nazionalistica in senso strettamente germanico fanno intravedere nel contributo della filosofia tedesca alla concezione nazionalistica dello stato i prodromi, tutt’altro che positivi, di alcune future esperienze totalitarie.
Non è questa la sede adatta per approfondire una siffatta questione. Qui vale piuttosto la pena di rilevare come l’attuale assetto del Pianeta presenti situazioni che esigono una nuova chiara definizione dei diritti dei popoli e uno sforzo comune affinché tali diritti siano concretamente garantiti.
Già nel 1967 Paolo VI, rivolgendosi «a tutti gli uomini di buona volontà», si faceva carico del dovere della Chiesa «di mettersi al servizio degli uomini onde aiutarli a cogliere tutte le dimensioni di tale grave problema e convincerli dell’urgenza di un’azione solidale in questa svolta della storia dell’umanità». Con queste parole si conclude, infatti, il primo paragrafo della lettera enciclica Popolorum progressio, volta appunto a individuare le situazioni di sottosviluppo, a studiarne le ragioni e a suggerirne i rimedi.
Ma le sue denunce e i suoi suggerimenti, dati anche dalla cattedra della Nazioni Unite, sono rimasti lettera morta. Il doloroso e drammatico spettacolo dei popoli dellindigenza che bussano, spesso con esiti tragici, alle porte dei popoli del benessere si è andato sempre più accentuando. Di questa situazione è certo responsabile una politica mondiale poco sensibile verso i diritti dei popoli; una politica che ha sostituito il colonialismo istituzionale con quello economico.
Nelle ex colonie, la decolonizzazione ha lasciato vecchi problemi insoluti e ne ha aperto di nuovi. Stati sorti sulla base della suddivisione territoriale operata dai colonizzatori, senza alcun rispetto delle culture e delle etnie locali, si sono trovati poi a contrastare il riaccendersi di conflitti tribali sopiti ma non spenti durante la lotta di liberazione dal comune dominatore. In contesti siffatti, dove alle condizioni economiche e sociali tuttaltro che vivibili si aggiunge lassenza di una identità spirituale condivisa, è un vero miracolo se non insorgono come invece sovente insorgono conflitti laceranti e sanguinari. Parlare di diritti umani non ha neppure senso in astratto. Perché in concreto non si sa neanche cosa significhino.
Lintervento del globalismo economico, in un contesto mondiale dominato dal capitalismo liberista, ha divaricato la forbice tra paesi tecnologicamente avanzati, che si sono avvantaggiati in virtù della maggiore competitività, e paesi sottosviluppati, destinati a soccombere. Con aspetti di sudditanza sotto ogni profilo: da quello economico a quello spirituale del disconoscimento della dignità, quando questa si è identificata come è avvenuto su larga scala – con lavere e col conseguente potere.
Situazioni siffatte, mentre corrispondono a condizioni di ingiustizia inaccettabili, in cui non è garantito nessun diritto: né libertà, né giustizia sociale, né istruzione e neppure quello primario della vita, rappresentano un potenziale pericolo di guerra. Necessita perciò una chiara definizione dei diritti dei popoli e corrispondentemente l’istituzione di organismi sovrannazionali capaci di farli rispettare. Altrimenti è pura retorica, talvolta anche ipocrita, discettare sui diritti umani.
Di proposito evito di entrare nellattualità degli esodi biblici e dei sacrifici di vite umane dovuti alla indifferenza delle nazioni economicamente sovrane nei confronti dei popoli sottosviluppati, che perciò vengono ineluttabilmente condannati per loro colpa si dice alla sudditanza e allapartheid. Faccio soltanto un appello, tanto inefficace quanto poco autorevole, ai responsabili del sistema scolastico perché nelleducazione delle nuove generazioni si inculchi lidea che risale a santAmbrogio: la Terra è stata donata a tutti e tutti hanno diritto di vivervi, con pari dignità e uguali diritti.
GIUSEPPE TERREGINO