La Via Crucis di Sebastiano Catania della Parrocchia Sant’Agata Vergine Martire di Cefalù.
L’opera nasce sicuramente dalla lettura diretta e attenta dei testi sacri e, soprattutto, dall’incontro del racconto evangelico con una forte sensibilità artistica, come quella di Sebastiano Catania che ha saputo conferire al tema tradizionale della Via Crucis caratteri di assoluta originalità formale, particolarmente apprezzabile visto che si tratta di elementi iconografici tra i più diffusi e consueti della nostra cultura.
Originale è sicuramente il paesaggio che fa da sfondo a tutti i momenti del percorso: si tratta, in verità, di un non paesaggio, quello della roccia, elemento di continuità in questo racconto della Passione di Cristo, ma anche elemento di rottura formale e tematica quando la terra si spacca sotto i colpi dell’uomo che uccide il fratello. È spontaneo chiedersi come mai l’artista abbia scelto la roccia come paesaggio per la sua opera: possiamo supporre che l’ambiente cefaludese, con le sue scogliere e la sua rocca, care all’artista, abbiano avuto un ruolo determinante, unitamente al sentire che la roccia sgorga dal cuore della terra, dalla sacralità e ineffabilità del profondo, come i sentimenti nascono dagli abissi dell’anima.
Nel non paesaggio della roccia avviene la prima scena: il bacio che, massima espressione d’amore fra gli uomini, diventa segnale di tradimento. Il bacio, in effetti, non si vede: c’è solo l’inizio di un abbraccio, la tensione delle braccia di Giuda, il movimento del suo corpo verso quello di Gesù in rassegnata attesa, con le braccia leggermente allargate ad accogliere il tradimento, il bacio mortale. È opportuno sottolineare subito l’attenzione dell’artista per l’anatomia dei corpi che, soprattutto attraverso certe tensioni muscolari, esprimono movimento, torsione e, spesso, sofferenza.
Si passa quindi ai processi, agli uomini che condannano Gesù, il quale, in assoluta solitudine, è curvo sotto il peso di una trave, con i muscoli in tensione che sembrano gridare il dolore derivante dai mali del mondo gravanti sul suo corpo. Inizia il calvario per l’uomo che ha predicato l’amore e che è stato ucciso dall’odio degli uomini, di tutti gli uomini.
Nel suo solitario calvario, il primo incontro è con una donna: la madre. L’artista ha rappresentato questo drammatico momento attraverso il profilo dei due volti e degli sguardi che si incrociano e si raccontano un amore e un dolore assoluti, altrimenti inesprimibili. Il ritmo delle proporzioni è spezzato e i volti risultano più grandi delle altre figure e ci coinvolgono nella profonda intimità di un intenso sguardo. Costituisce sicuramente elemento di originalità il nuovo senso delle dimensioni e l’alternarsi nell’opera delle proporzioni, per cui alcune immagini spezzano il ritmo narrativo anche da un punto di vista delle grandezze e irrompono nella scena per coinvolgere l’osservatore nei sentimenti di amore e dolore in esse espresse. Gesù nella scena si confonde con la roccia, emerge, quasi, da essa, essendo ancora legato alla dimensione terrena.
Gesù cade: il Cireneo, nudo e di spalle, lo aiuta, ma non lo fa per vero amore. Il vero amore è espresso dalla Veronica, raffigurata attraverso le sembianze di Madre Teresa di Calcutta (unico riferimento al mondo contemporaneo) che asciuga il volto di Gesù. E poi ancora le donne in pianto (ma gli uomini che gli erano stati vicino, dove sono?) e ci commuove la donna incinta genuflessa che accarezza la mano di Gesù in un’espressione di totale amore. Intanto, mentre parla alle donne, qualcuno gli strappa le vesti: vuole togliere la dignità a Gesù spogliandolo, ma lui nudo, ha già perso la sua dignità.
In tutta l’opera le figure femminili esprimono amore, dolore, rinascita: gli uomini, a volte nudi e di spalle, rappresentano l’odio e la violenza.
Gesù viene quindi inchiodato, non alla croce come ci aspetteremmo, ma alla terra, alla roccia che si spacca sotto i colpi dell’uomo nudo, che vediamo di spalle, su Cristo sofferente, quasi risucchiato dalla terra. È il momento più forte dell’opera: sembra di sentire l’urlo di dolore e il fragore della roccia (normalmente simbolo di forza e stabilità) che non riesce a mantenere la sua integrità sotto i colpi del male. È il dolore della terra, il dolore di allora e il dolore di oggi per la sopraffazione dell’uomo nei confronti dell’altro uomo. Il volto di Cristo esprime una sofferenza inenarrabile e il senso di lacerazione viene espresso anche da un punto di vista formale, con una soluzione nuova ed efficace: la successione si spezza e una figura circolare si impone come elemento di rottura di una narrazione sequenziale e lineare legata alla temporalità.
Ma il tempo terreno, per Gesù, si è concluso. Nella scena successiva, egli, in croce (la croce non si vede perché Gesù è la croce), è già proiettato verso l’alto, spicca il volo verso l’eterno. È quindi il momento della Pietà, in cui la madre tiene in braccio il figlio morto, così come lo ha tenuto quando è nato. La madre, madre della chiesa, è confusa con la roccia, mentre il figlio ritorna al padre. Troviamo quindi la situazione capovolta rispetto all’incontro di Gesù con la madre: in quel caso lui era confuso con la roccia perché ancora legato alla terra; ora lui è nella dimensione dell’eterno mentre la madre diventa la Chiesa sulla terra. Da evidenziare il volto di Maria, non bellissimo secondo schemi usuali, ma tanto vero e autentico nel suo dolore di madre. In effetti, l’artista rivolge un’attenzione particolare ai volti di tutti i personaggi, capaci di esprimere i mille sentimenti che attraversano l’animo umano, dal più basso al più elevato. Il sepolcro non si vede: Cristo sta per essere sepolto nella roccia, che invade la scena ed esplode mostrando il sepolcro vuoto. Ancora una volta la roccia acquista valori simbolici e dà continuità alla narrazione: essa si spacca, esplode, perché Cristo ha fatto esplodere la nuova fede religiosa. E dal sepolcro vuoto è come se la roccia si espandesse a raggiera ad indicare l’irradiarsi della fede in Cristo. Gesù non compare più (d’altra parte nessuno lo ha visto risorgere); vediamo, invece, risorgere l’uomo, maschio e femmina, nell’ultima immagine dell’opera in cui, nuovamente, non vengono rispettate le proporzioni perché i volti della coppia umana sono più grandi rispetto alle dimensioni degli altri personaggi, come più grandi erano i volti di Gesù e di Maria nel loro incontro.
Tutta la vicenda è narrata senza gli schemi tradizionali delle stazioni ed è vista in tutta la sua profonda umanità. E alla fine, dalla roccia, dalla sofferenza, dall’incontro tra umano e divino, tra tempo ed eternità, l’uomo rinasce ad una nuova vita.
L’opera, realizzata in bronzo con la tecnica della fusione a cera persa, alterna bassorilievo, altorilievo e tutto tondo ed è collocata sulla travata destra della Chiesa Sant’Agata Vergine Martire.

Rosalba Gallà

( L’articolo è stato pubblicato, con qualche lieve differenza, sulla Rivista della Chiesa Cefaludense, n. 4, anno 2002)