«Il Sindaco intentava causa per il mantenimento degli obblighi statutari e nel 1870 otteneva una sentenza favorevole che condannava i Belmonte alla consegna degli immobili e al pagamento degli arretrati, oltre ad un assegno annuo di £1200». Cosi Lucia Caminiti alla pagina 37 del suo documentatissimo volume Educare per amore di Dio, edito da Rubbettino nel 2005, dove si tratta dei “Collegi di Maria tra Chiesa e Stato”, con particolare riferimento alle leggi di soppressione dei beni ecclesiastici all’indomani della costituzione dello stato unitario.Nei confronti della quale il paese di Gratteri non era stato assente, anche in virtùdella vicinanza alla cellula irredentista della vicina Cefalù, come testimonia la partecipazione di un suo figlio, Giuseppe Bonafede (Gratteri, 1831), alla spedizione dei Mille.

Ma il commento dello stralcio del volume di L. Caminiti esige un lungo passo indietro, fino a quando – come leggiamo nel prezioso volume su Gratteri dell’architetto Pina Di Francesca, edito da Flaccovio (PA) nel 2000 – «Sotto il regno di Alfonso di Aragona (1416-1458), in un mutato quadro generale, inizia la baronia di Gratteri». Quando già con Martino il Vecchio, succeduto per ironia della sorte al figlio Martino il Giovane, “da allora, la Sicilia perdeva ogni autonomia e diventava una dipendenza spagnola” (v. J. Huré, Storia della Sicilia, ED.RI.SI., Palermo 1982). In un contesto nel quale, per dirla proprio con lo Huré, “nel momento stesso in cui si assisteva nell’Italia del Nord alla liquidazione del regime feudale, la Sicilia – e tutto il Sud – vi si sistemavano per secoli.

Quattro secoli con riferimento a Gratteri, sotto il dominio incontrastato dei Ventimiglia. Fino a quando (1812), anche per merito di uno di costoro, Giuseppe Ventimiglia, sotto il titolo di principe di Belmonte, che fa dimenticare il titolo minore di barone di Gratteri, del quale egli poteva legittimamente fregiarsi, con la costituzione del Regno di Sicilia si pose fine al feudalesimo.

Si trattò, come è risaputo di un atto formale e, per quanto riguarda il re Ferdinando, purtroppo anche temporaneo, fino al suo ritorno a Napoli liberata dal francesi e alla costituzione del Regno delle due Sicilie. Nella sostanza in Sicilia non mutò nulla e il vecchio regime persistette fino alla annessione della nostra regione al costituito Stato unitario.

Abbiamo citato uno dei baroni di Gratteri degno di memoria per le sue benemerenze. Ma questi non fu l’unico. Anche tra i suoi predecessori si trovano personaggi capaci di farsi amare da sudditi. Del loro governo vi sono tracce epigrafiche fino alla data del 1744, che compare sulla lapide commemorativa del Barone Gaetano, nella quale si legge un elogio meritevole di memoria: «D. Gaetano di Ventimiglia e d’Afflitto, principe di Belmonte, barone di Gratteri e di Santo Stefano, giunse alla fine dei suoi giorni il 23 luglio 1724 a 62 anni di età, dopo una vita di assoluto celibato, durante la quale tuttavia ebbe molto cari, in luogo di figli, i poveri e i bisognosi, che sostenne a proprie spese con somma generosità».

Con tale lapide sembra concludersi la storia gratterese dei Ventimiglia. Che però continua sotto altro titolo.Dopo l’elevazione al rango di principi di Belmonte, i baroni di Gratteri avranno proprio in quest’altro luogo la residenza ufficiale e il domicilio di fatto.

Tra costoro, «Per la sua munificenza – come si legge nel citato volume di Pina Di Francesca – si distinse Giuseppe Emanuele Ventimiglia, principe di Belmonte Mezzagno, che prendendo a cuore l’iniziativa di assicurare opportunità educative alle ragazze indigenti del paese, a più riprese, nel 1765 e nel 1769, dotò il collegio di Maria di rendite annue  rispettivamente di onze 20 e di onze 28». Il collegio,allocato in un ex monastero contiguo alla chiesa di sant’Andrea,venne istituito per sua volontà, come uno dei tanti che fiorirono in Sicilia nel XVIII secolo (il primo nel 1721 nella contrada della Olivella di Palermo), in cui le religiose dell’ordine fondato dal cardinale Pietro Marcellino Corradini di Sezze (1658-1743) curavano l’alfabetizzazione e l’istruzione religiosa delle ragazze del popolo, soprattutto se bisognose di aiuto materiale e morale, che esse istruivano anche nella pratica dei lavori domestici e artigianali femminili. Un’opera, questa, certamente benemerita al di là di ogni considerazione sociologica in relazione agli intenti di autotutela del potere politico allora dominante nella nostra Regione. Un’opera benefica che a Gratteri ebbe la durata di circa ottanta anni, fino al 1845, quando, scomparsa l’ultima collegina, “il principe chiudeva la scuola e sospendeva l’assegno di sostentamento” (L. Caminiti).

Dopo le note leggi di soppressione (7 luglio 1866 e 15 agosto 1867) votate dal Parlamento del costituito Regno d’Italia, la sorte dei collegi di Maria fu generalmente quella degli altri enti ecclesiastici, che di fatto vennero soppressi essendo venuto meno il riconoscimento del loro status giuridico di soggetti capaci del possesso di beni non direttamente destinati alle pratiche liturgiche. La sorte del Collegio di Gratteri fu in certa misura diversa dato che esso era già chiuso dal 1845. Dal 1868, dopo la promulgazione delle leggi anzidette, si apri una controversia tra il Comune e il principe, proprietario dell’edificio dove era stato allogato il collegio, presso la deputazione provinciale, la quale propose una soluzione di compromesso. Per nulla soddisfatto, il sindaco intentava la causa conclusasi con la sentenza di cui si è detto sopra, all’inizio della presente nota.

Questa sentenza è importantissima in quanto afferma implicitamente il diritto all’istruzione come diritto umano ineludibile dai governanti a favore delle comunità da loro governate. La sanzione inflitta al principe ne condanna, infatti, non la disattesa di una promessa contrattuale nella veste di benefattore, ma il non adempimento degli obblighi statuiti a favore del collegio all’atto della sua fondazione. Cosa ormai divenuta imperdonabile alla luce del riflesso, ormai generalizzato sulle classi egemoni dell’Europa, della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, durante la Rivoluzione francese. Come si evince anche dal fatto che il ricorso del sindaco di Gratteri venne “supportato dai pareri della deputazione e dal Ministero dell’interno”, che non potevano transigere difronte a un atto unilaterale di chiusura di quello, il collegio, che rappresentava l’unica scuola femminile del circondario quando ormai era pacificamente riconosciuto il diritto-dovere alla istruzione primaria senza distinzione di genere.

Di ciò è testimonianza l’uso fatto dal comune delle risorse accreditate dalla sentenza, che venivano impiegate per“riattare i locali ed assumere due maestre che si occupavano di mantenere tre classi femminili». Con una oculata funzionalità nella distribuzione degli spazi: «nei locali del pianoterra, con annesso giardinetto, venivano allocate le scuole, le quattro stanze al piano superiore venivano destinate ad alloggio delle maestre estranee al paese».

Un esempio, questo, di buon governo, che sancisce nei fatti il merito della acquisita sovranità del comune. Di cui darà prova la futura capacità formativa della scuola elementare gratterese, riconosciuta nel circondario per l’abilità dei dipendenti nelle rimaste aziende feudali, nonché dell’artigianato locale non privo delle conoscenze teoriche connesse allo status degli addetti. Frutto, questo, soprattutto dell’impegno totale di quei maestri, famosi anche per la severità (al tempo più che benefica), che non facevano sconti nei loro giudizi quando si trattava della luce di quel sapere indispensabile per essere cittadini liberi e competenti.

   GIUSEPPE TERREGINO