Dal libro del giornalista Lucio Luca “Prove tecniche di trasmissione, trent’anni di radio e tv private a Palermo” (2006 – SigmaEditore), ecco il capitolo dedicata alla intensa e significativa esperienza di Tele L’Ora, con la testimonianza del giornalista Rai Mario Azzolini.

Tele L’Ora, poveri ma belli

E’ durato appena tre anni e mezzo ma ha lasciato il segno. Il tg di Tele L’Ora era diverso da tutti gli altri. Le notizie, certo, ma soprattutto le inchieste, le campagne pacifiste, la lotta a una mafia forte e impunita, la denuncia dei poteri occulti. E un taglio del tutto particolare: per la prima volta un telegiornale a più voci, condotto in piedi tra una scrivania e l’altra del quotidiano del pomeriggio. L’editore era il Partito comunista che, lentamente, cominciò a pressare una redazione senza grossi mezzi ma decisamente ricca di orgoglio. Nel giugno dell’84, dopo aver raccontato la guerra tra cosche, l’omicidio La Torre, la strage Chinnici, il tg di Tele L’Ora chiuse i battenti. Uno dei protagonisti di quella avventura fu Mario Azzolini, oggi giornalista della sede siciliana della Rai

Il telefono squillò all’alba ma nessuno ci fece caso. Per noi del giornale “L’Ora” era la normalità. Si andava in redazione quando ancora faceva buio, a metà mattinata doveva essere tutto pronto, si usciva in edicola all’ora di pranzo. Tra i colleghi quella chiamata passò del tutto inosservata. Io, invece, rimasi di stucco. Dall’altra parte c’era il dirigente del Pci Michele Figurelli: «Mario, dimmi una cosa, ma dal tetto del giornale si vede Monte Pellegrino?». Ora, se uno ti chiama alle sei del mattino per chiederti una cosa del genere, o ha bevuto o c’è qualcosa sotto. «Michele, non credo proprio che si veda, ma perché vuoi saperlo?». «Niente, niente, cazzo… ci sentiamo».
Lo raccontai in giro e giungemmo alla conclusione che Figurelli era andato fuori di testa. Capii il senso della telefonata soltanto qualche giorno dopo quando Luigi Colajanni mi spiegò che il comitato regionale del partito aveva deciso di aprire una televisione locale in previsione delle amministrative. Era il settembre del 1979, io ero ancora un “biondino”, cioè un collaboratore del giornale. Il Pci, del quale facevo l’addetto stampa, aveva scelto me per organizzare la redazione e prendere i primi contatti con i tecnici.
Per prima cosa bisognava ristrutturare il terzo piano della palazzina di piazzetta Napoli. Era sommerso da carte e cartoni, ci volle un bel po’ prima di rimetterlo in ordine. C’era una stanzetta piccolissima per la redazione, una un po’ più grande per il capo, la saletta per l’archivio, la regia e uno spazio abbastanza ampio per ospitare lo studio. Quanto all’antenna, ne serviva una particolarmente alta proprio per quel piccolo inconveniente di Monte Pellegrino. Bisognava superare l’ostacolo dei palazzi per mandare il segnale al ripetitore. Grazie ai calcoli dell’ingegnere Benedetto Colajanni, montammo un traliccio di una ventina di metri sul tetto. Una faticaccia ma finalmente arrivò l’ora di Tele L’Ora, come titolò, senza troppa fantasia, “Qui Tv”, la “bibbia” dei programmi televisivi dell’epoca. «Tele L’Ora, costituita in società per azioni, aderirà al Net — scrisse quel settimanale — il circuito di distribuzione programmi organizzato dai comunisti». Dimenticarono di ricordare un fatto unico: il Pci raccolse nelle sezioni, nelle cooperative e durante le feste dell’Unità, alcune centinaia di milioni che andarono ad irrobustire il capitale iniziale dell’emittente. Un azionariato popolare che non aveva precedenti.


Il direttore dei programmi era Antonio Bertini, Mauro Mancini, responsabile del sistema regionale televisivo del Pci, il suo braccio destro. A presiedere il Consiglio di amministrazione fu chiamato l’ex direttore del giornale Vittorio Nisticò, i consiglieri erano Ernesto Ceraulo, ex dirigente della Cassa di Risparmio e autentico sosia di Giuseppe Verdi, Gemma Contin, moglie del dirigente comunista Nino Mannino, Lino Motta della segreteria regionale e Mimì La Cavera che qualche tempo dopo prese il posto di Nisticò alla presidenza.
Ma la vera “mente” della tv era sicuramente Daniela Pavesi, la segretaria di produzione che avevamo “strappato” a Cts, l’unica tra l’altro che poteva vantare esperienze specifiche nel mondo della televisione privata. Eravamo un’emanazione del partito, certo, ma puntavamo a fare una informazione libera, senza alcun condizionamento di parte. Solo che, per il battesimo dell’emittente, scegliemmo il programma sbagliato: mandammo in onda un cartone animato della serie “Vicky il vichingo” intitolato, manco a farlo apposta, “Viaggio in Russia”. La battuta fu scontata: «Viaggio in Russia per prendere i rubli?».
Nella primavera del 1981, alla vigilia delle elezioni, partì finalmente il tg di Tele L’Ora, destinato a diventare un appuntamento fisso per migliaia di palermitani. Il direttore del giornale Nicola Cattedra era indeciso se affidare la redazione ad Antonio Calabrò o a Giacomino Galante. «Sono bravi tutti e due, se lo meritano», andava ripetendo ai suoi collaboratori più stretti. Fui io, in un certo senso, a dirottarlo sul nome di Calabrò: «Direttore, mi sembra più spigliato, sai per andare davanti a una telecamera forse…». Giacomino non c’è più, chiunque mi conosca sa quanto gli volevo bene. Ma aveva un piccolo difetto di pronuncia, tartagliava un po’, diciamo che per la tv non era proprio tagliato. Alla fine sia il Cda che Cattedra convenirono che non si poteva fare altrimenti.
Antonio Calabrò costruì una redazione giovane, diciamo d’assalto. Mi fece assumere come praticante e l’anno dopo fu la volta di Nicola Lombardozzi, da anni cronista di nera e giudiziaria dopo tante esperienze nelle radio private. Furono chiamati a collaborare anche Giuseppe Di Piazza e Antonio Macaluso. Quattro o cinque giornalisti per due edizioni del notiziario non erano certo abbastanza e fu così che ci inventammo l’idea del tg all’interno della redazione del giornale.
Hai presente quella serie televisiva che si chiamava Lou Grant? Raccontava la vita di un cronista e ci piaceva molto l’idea dell’open space, proprio come quello del giornale di Chicago. Così piazzammo le telecamere al secondo piano, nel cuore de “L’Ora”, e intorno alle 13 — Calabrò faceva registrare il notiziario qualche minuto prima della messa in onda — partiva la sigla. Uno di noi annunciava la notizia, porgeva il microfono al collega che aveva scritto il pezzo per il giornale e lui, in poche parole, riassumeva l’articolo. Fu una trovata geniale: intanto potevamo contare su un sacco di collaboratori e, contemporaneamente, si faceva promozione al quotidiano in edicola nel pomeriggio. Aggiungici anche che, non avendo grossi mezzi a disposizione, era impossibile coprire con le immagini tutti gli eventi cittadini.
il tg “itinerante” si superava l’ostacolo e si dava all’esterno una certa impressione di opulenza che, purtroppo, non rispondeva assolutamente alla realtà. Alla gente, comunque, questa formula piaceva, anche perché era una novità assoluta. Soltanto qualche anno fa, per esempio, alcuni tg nazionali hanno optato per la doppia conduzione. Noi li abbiamo preceduti di un quarto di secolo abbondante.
In linea di massima i colleghi del giornale erano ben felici di darci una mano. Per ogni intervento prendevano un rimborso spese e quindi, alla fine del mese, potevano contare su qualche spicciolo in più in busta paga che non faceva male. Qualcuno, però, passò qualche guaio a causa delle sue apparizioni televisive. Il cronista di nera Gianni Lo Monaco aveva un’espressione facciale molto particolare. Un ghigno che non piaceva affatto ai boss mafiosi che si sentivano sfottuti. Fu minacciato un sacco di volte, non tanto per le notizie che dava quanto proprio per quella mancanza di rispetto che i mafiosi intravedevano. Gianni prese molto sul serio le intimidazioni, era stato amico di Mauro De Mauro, sapeva che quella era gente pericolosa. Dopo un periodo di riposo tornò al giornale ma passò a occuparsi di altri argomenti. Ricordo che anche Calabrò fu minacciato quando Tele L’Ora avviò una campagna sullo sgombero di alcune case abusive a Ciaculli.
Il telegiornale cresceva di giorno in giorno. I dati di ascolto ci davano nettamente in testa rispetto ai colleghi di Tgs, i concorrenti storici. In più tutti i tecnici e i giornalisti erano messi in regola, una autentica rarità per quell’epoca. E il furgoncino rosa che attraversava la città diventò per molti familiare. Già, il furgoncino rosa, uno dei tre mezzi a disposizione delle nostre troupe esterne. Gli altri erano una Due Cavalli che cadeva a pezzi e una mitica Skoda di fabbricazione cecoslovacca, tanto per rimarcare le nostre radici filosovietiche. Una volta la Skoda rimase in panne proprio mentre stavo andando a intervistare Enrico Berlinguer a Villa Igiea. Arrivai con un’ora di ritardo, mi scusai e lui fu molto comprensivo. Alla fine dell’intervista gli chiesi a bruciapelo: «Compagno Berlinguer, visto che in fondo sei l’editore di Tele L’Ora, perché non ci compri una macchina più efficiente?». Scoppiò a ridere, mi fece i complimenti, ma l’auto nuova non arrivò lo stesso.
Alla fine dell’81 scoppiò la questione Comiso. Fu uno dei cavalli di battaglia della nostra emittente. Organizzammo speciali, dibattiti, reportage al seguito di Pio La Torre, il segretario regionale del Pci che si era schierato decisamente contro i missili. A Tele L’Ora arrivarono decine di inviati stranieri, fornimmo a mezzo mondo le immagini esclusive dell’aeroporto Magliocco: io stesso ero riuscito a entrare nella struttura con una telecamera approfittando della distrazione di un paio di guardie. Insomma, in quel periodo diventammo un punto di riferimento del pacifismo internazionale. Con Pio La Torre nacque una grande amicizia: ero un giovane militante, mi affascinava il piglio con il quale combatteva le sue battaglie. Poi, il 30 aprile del 1982, mi chiama Calabrò e mi dice di andare in piazza Turba: «Corri, c’è stata una sparatoria». Arrivai sul posto assieme a Nicola Lombardozzi e riconobbi immediatamente l’auto di Rosario Di Salvo, l’uomo di scorta del segretario comunista. Vidi il corpo crivellato di colpi di La Torre, il momento più brutto della mia vita…
Tele L’Ora attraversò in pieno la prima feroce guerra di mafia degli anni Ottanta. Un giorno ci furono qualcosa come sette omicidi: la troupe si era sbattuta a destra e sinistra per ore, gli operatori erano tornati a casa esausti quando giunse l’ennesima segnalazione. Non c’era più nessun tecnico e così inviammo sul posto una segretaria, Rosaria Corica, che sapeva maneggiare la telecamera. Quando arrivò in via Messina Marine fu insultata dalle vedove di mafia: «Vergogna, una donna che fa questo mestiere, buttana…». Rosaria tornò in lacrime, per consolarla le spiegai che quello era un fatto normale. Quando fu arrestato il boss Pietro Vernengo, per esempio, la moglie si era rifiutata di andare in commissariato con l’auto dei poliziotti: «Io, una femmina, in mezzo a quattro uomini? Piuttosto mi ammazzo», disse agli agenti increduli. Alla fine in commissariato ci andò, ma soltanto accompagnata da un parente, perché nel rione non si facessero strane illazioni.
La mafia, certo, ma anche l’informazione politica ricopriva un ruolo di grande rilievo nel palinsesto di Tele L’Ora. Il Pci pensava di poter gestire gli spazi a suo piacimento, ma trovò spesso la netta opposizione di Calabrò che non voleva ridurre all’emittente a organo di partito. Uno che si incazzava spesso per la scarsa visibilità era il senatore Michelangelo Russo, l’uomo forte dei miglioristi di Sicilia. Ci imposero di intervistarlo più spesso e il capo redattore, pur di evitare altre “camurrie”, gli affidò addirittura una rubrica settimanale nella quale poteva esprimere il suo punto di vista. La battezzammo ironicamente “Michelangolo”.
Fummo i primi a fare i sondaggi per strada sulle vicende politiche e amministrative, inaugurammo le dirette elettorali con i collegamenti dalle prefetture, dall’assessorato agli Enti Locali, dai partiti. Oggi lo fanno tutti, trent’anni fa era inammissibile che una tv locale si impegnasse su questo fronte. Non ti dico poi i “buchi” che davamo alla Rai: grazie ai cronisti del giornale venivamo a conoscenza degli omicidi, degli arresti, dei blitz praticamente in tempo reale. Un sacco di volte il capo redattore della Rai siciliana Orlando Scarlata era costretto a telefonare a Calabrò per chiedergli le immagini. Soldi? No, non ne abbiamo mai voluti, ma obbligavamo la tv di Stato a citare la fonte delle immagini. E la nostra popolarità aumentava.
Tanto che un bel giorno il presidente del Cda Mimì La Cavera si presentò nella stanza del capo redattore e gli fece una proposta: «Antonio, che ne diresti se inserissimo all’interno del tg un paio di passaggi pubblicitari?». Calabrò lo guardò malissimo: «Che direi? Ti consegnerei immediatamente la lettera di dimissioni». Il povero La Cavera se ne andò con la coda tra le gambe. Dovette rinunciare a un paio di bei contratti, la tv non navigava nell’oro, però andavamo fieri del nostro telegiornale povero ma bello. Anzi, criticavamo Tgs perché malgrado quella fosse un’azienda florida, il notiziario era letteralmente invaso dagli inserzionisti.
Quel primo scontro tra redazione e Cda fu uno dei tanti campanelli d’allarme di una situazione aziendale che stava lentamente degenerando. Chiedevamo rinforzi e facevano orecchie da mercante, si guastava una telecamera e non la sostituivano, serviva una centralina di montaggio ma, malgrado le promesse non arrivava mai. Le pressioni del partito erano sempre più forti: intervistavamo Almirante, di passaggio a Palermo? E ci rimproveravano di aver dato voce a un missino. Ci chiamava un consigliere comunale comunista per qualche inutile interrogazione a Palazzo delle Aquile? E nemmeno davamo la notizia. Non volevamo fare Tele Pci e il partito ce la faceva pagare ignorando le nostre richieste. Non dico che il giocattolo si fosse rotto, ma non era più come agli inizi.
Dopo tre anni arrivarono le prime lettere di licenziamento per i tecnici. Poi fu la volta dei giornalisti. Il 22 giugno Antonio Calabrò scrisse al Consiglio di amministrazione: «State buttando via un patrimonio professionale e politico accumulato con grande impegno. Vi sono grato per quello che la società editrice ci ha permesso di fare nel campo dell’informazione. Vi sono molto meno grato per la lunga serie di errori editoriali che hanno aggravato una condizione oggettiva di difficoltà e che ci portano oggi alla chiusura. Spero che prima o poi Tele L’Ora torni a fare buona informazione. Con i miei cordiali saluti, vi rassegno le dimissioni».
Il 30 giugno del 1984, nel giorno del matrimonio di un collega dello Sport, Gaetano Perricone, fu mandato in onda l’ultimo notiziario. Qualche mese dopo si tentò di farlo resuscitare affidando la direzione a Gianluca Loni, un collaboratore del giornale. Ma durò poco, non c’era più lo spirito di una volta. Il tg era uguale a tutti gli altri, soltanto più povero di notizie e servizi, quindi senza futuro.
Antonio Calabrò andò a “Repubblica” assieme a Lombardozzi. Oggi è il direttore di Apcom, un’agenzia di stampa economica, dopo aver guidato il “Sole 24 Ore”, Nicola è capo redattore degli Esteri nel quotidiano di Ezio Mauro. Io lavoro alla Rai di Palermo, Giuseppe Di Piazza è il direttore di “Max” dopo una lunga esperienza da capo redattore al “Messaggero”. Tele L’Ora è stata una grande palestra. Mi spiace soltanto che si sia perso l’archivio: tre anni di immagini esclusive che vennero cedute, assieme agli impianti e alle frequenze, al cavaliere Mario Rendo, editore di Telecolor Video 3. Non so se esistano ancora, ma quelle cassette rappresentano una miniera d’oro. Chissà se un giorno qualcuno potrà finalmente recuperarle.