Morti ammucchiava su morti, per primo, codesto violento
propagarsi del male. Chi troppo di viver bramoso,
per schivarne il contatto, de gli egri congiunti a la vista
sottraeasi vilmente, il fio dell’incuria pagava
dopo poco, con morte tristissima e turpe, a sua volta
derelitto ed estraneo ad ogni soccorso: la stessa
sua viltà l’uccideva. Cadeano i migliori e più pii,
vinti pur dal contagio, da l’opre de l’alacre aiuto,
cui li spingeva un senso d’onore e la supplice voce
dei moribondi, frammista a queruli pianti. Assegnato
era ai più nobili cuori così tale premio di morte! (T. Lucrezio Caro, Il poema della natura VI, vv. 1237-1246).

Non so se ancora nelle scuole superiori si inducano i giovani a riflettere su un passo come questo, tratto da quello che – per dirla con Ludovico Geymonat – è ritenuto “il più bel poema ad argomento naturalistico della letteratura mondiale”.
Eppure si tratta di un passo ancora di cocente attualità, quando il violento male della pandemia ammucchia morti su morti e le salme vengono trasportate fuori del luogo di origine dagli autocarri dell’esercito e neppure una persona cara segue i feretri dei congiunti così composti dopo una morte tristissima, derelitti ed estranei ad ogni soccorso. Quella stessa morte che – come un anatema – Lucrezio (98-55 a.C.) augurava a chi troppo bramoso di vivere, “per schivarne il contatto, degli egri congiunti alla vista sottraeasi”! Lo stesso poeta il quale amaramente commentava che un tale premio di morte era assegnato anche ai cuori più nobili. Di quelli che, spinti da un ineludibile senso dell’onore e dalla umana pietà, non chiudevano occhi ed orecchi alla supplice voce dei moribondi, pronti a pagare il fio del contagio pur di non rimanere sordi alle querule richieste di aiuto.


«La nostra forma di vita impostata su interessi materiali, tecnologici, industriali, sul successo e sul denaro ha impoverito radicalmente l’uomo – e sono soprattutto le nuove generazioni a subirne le conseguenze peggiori». Così dice Giovanni Reale nel prezioso volume sulla Saggezza antica, nel quale indica per l’appunto il contesto dei valori umani del mondo classico come riferimento per la terapia dei mali dell’uomo di oggi. Di quei valori che dovrebbero essere, quando vengono disattesi e rischiano di perdere importanza, la preoccupazione primaria dell’odierno stato di impotenza contro un nemico inatteso ma non certamente improbabile. Ragione per cui, prima di pensare agli effetti negativi sull’economia, varrebbe la pena di gettare le basi culturali per ovviare a situazioni simili nel futuro.
I mezzi di oggi non sono quelli del primo secolo avanti Cristo, sia sul piano scientifico che tecnologico. Esistono istituti di ricerca ben attrezzati per ovviare in tempi relativamente brevi ad effetti cosi devastanti quali quelli prodotti dalla attuale pandemia. Purché – e questo è molto importante – la ricerca sia libera da condizionamenti volti a salvaguardare i profitti degli investimenti di potentati economici o gli interessi strategici di questo o di quello stato; e si svolga in quel “laboratorio aperto” auspicato da Rubbia, “internazionale non influenzabile dai sistemi politici”. In quel “mondo quasi ideale dove si possono vedere al lavoro assieme agli europei americani e russi, cinesi e giapponesi, arabi e israeliani. Si collabora e si comunica apertamente, non esiste il segreto. Non ci sono limitazioni alle conoscenze”.
Questo però esige che sia l’ente pubblico a curare la ricerca, investendo in essa congrue risorse per garantire una attività non diretta a fini di lucro, ma al soddisfacimento di bisogni primari della società, qual è per l’appunto il diritto alla salute. Condizione, questa, unica per garantire la libertà dello scienziato, perché questi si possa sentire totalmente immerso in un’attività volta ad ottenere le risposte risolutive alle domande che egli si pone in relazione al bene società in cui liberamente vive. Il che può avvenire solo “all’interno di strutture universitarie solide, non inquinate dalle degenerazioni baronali”, nelle quali il ricercatore “è sottratto alle influenze esterne e può salvaguardare la propria autonomia Intellettuale”(Rubbia).
Questa è un’etica non dissociabile dalla scienza. Che può salvaguardare l’umanità dallo scadimento di quei valori che danno senso al vivere e motivazione all’agire. Altrimenti, quando non si retrocede nella barbarie, si scade nel nichilismo dominato dal mito del progresso tecnologico, che fa più stragi, umanamente parlando, di un sempre in agguato invisibile nemico.
Giuseppe Terregino