Essere prestigiosa meta di un turismo culturale senza confronti, oppure, non essere questo e sfruttare economicamente il vantaggio di un territorio favorevole al consumismo vacanziero. Avere il senso dell’onurigranni sentito da Carmine Papa nella poesia Pri la vinuta di li Scenziati a Cifalù  a li 31 d’Austu 1875, oppure gioire per una saga paesana molto affollata. Questo dilemma ai tempi di Carmine Papa non si poneva. Perché allora il valore morale dei beni artistici e culturali in genere era prevalente rispetto al valore venale del loro uso. Quasi questo fosse una profanazione.

Di esso,infatti, non si fa cenno nella presa d’atto d’un evento tanto gratificante quanto onorifico qual è quello descritto dal vecchio, sessantanovenne, poeta cefaludese:

Cifalutani, avemmugrannionuri,

viniri sti pirsunilittirati,

Astronimi, filosofi e dutturi,

Pri visitarichistiantichitati,

Di li Ciclopi li famosi muri

Trenta seculiarreri fabbricati;

E lu gran tempiu di luSarvaturi,

Ca cu lu vidi restanu ‘nciammati.

Altri tempi, si dirà. Ed è vero.La realtà, infatti, ora è un’altra: quella che deve fare i conti con gli innumerevoli posti di lavoro che andrebbero perduti se si dovesse riportare la città alle dimensioni e all’assetto urbanistico e territoriale di una volta, quando le attività preminenti erano l’agricoltura e la pesca, quando Cefalù era definita abbondante di pane, vino ed acqua (“Cifalù, Cifalùsuttana rocca, abbunnantieddu di pani vinu ed acqua”), mentre le barche, pur non andando troppo al largo (“terra terra come le barche di Cefalù”, si diceva), al mattino tornavano stracariche di sarde e anciove, per alimentare anche l’industria del salato nel suo epicentro di piazza Cristoforo Colombo.

Allora il cefalutano era innamorato della campagna nella sua naturale feracità e salubrità. Tutti ne avevano almeno un ritaglio per trascorrervi i mesi della calura estiva, dal giorno dopo la festa del Salvatore ai primi reali segni d’autunno coincidenti con l’apertura dei ricci delle castagne e la caduta delle prime drupe. Senza dire del fatto che a Cefalù la campagna era sovente la pronuba della luna di miele. Cosa che stupefaceva alquanto i forestieri. Loro no, i cefalutani non consideravano la cosa affatto strana. L’amore per la campagna era, infatti, nel loro DNA, che scorreva nel sangue di chi – come Carmine Papa – lo ha cantato in versi d’alto valore poetico, interpretando così un sentimento comune dei cefalutani d’ogni risma.

Questo oggi si è quasi perduto. Ma la perdita maggiore sta, forse, nell’attenuazione dello zelo proprio dell’animo cefalutano riguardo alla valutazione del bene e del male per la città nella sua dimensione, se così possiamo dire, più personale. Perché le città come la nostra hanno una personalità, che non può essere ignorata se si vuole evitare quello scadimento che si chiama omologazione, per dire conformità a un modello astratto, che rende indistinguibile un luogo da un altro. Cosa inaccettabile quando cancella pregi atti a suscitare il senso del bello e ottunde quelle facoltà estetiche che ne rilevano la presenza.

Onde, proprio in un momento come quello attuale, in cui s’ha da progettare la ripresa dell’attività turistica interrotta dalla pandemia, non sarebbe fuori luogo porsi il dilemma di cui all’inizio di questa nota. Si tratta, però, di un dilemma drammatico. E forse senza via d’uscita, perché quella di oggi è una realtà troppo complessa e per di più in rapido mutamento. In cui il dato economico deve essere per necessità di cose prevalente. Perché il problema del pane quotidiano è così arduo da non lasciare più spazio a questioni di ordine morale, che purtroppo, per quanto siano importanti, non possono essere soppesate con la dovuta calma e ragionevolezza.

Ma porselo sarebbe non solo un doveroso atto di omaggio in onore della più alta voce poetica del territorio, ma anche la presa d’atto del valore attribuito allora alla cultura e del rispetto di cui erano circondati i rappresentanti di ogni branca del sapere, che Carmine addita come “Omini granni, omini scienti,/Omini positivi e littirati”, degni di essere “di rosi ‘ncurunati”.

Un’iperbole che oggi ci fa sorridere, perché, grazie all’istruzione pubblica generalizzata, le persone degne di tali epiteti sarebbero migliaia presenti ogni giorno nella nostra città. Non cessa però il merito di Carmine Papa di avere associato il valore del patrimonio artistico di Cefalù all’attenzione verso di esso degli uomini di cultura, ossia di coloro per i quali il turismo fosse una esperienza di vita per una vita intellettuale legata al culto della bellezza in sé e per se stesso. Nonché quello del riconoscimento dell’importanza dell’istruzione sul lato formativo: “Puru ‘na vota fustivu studenti, / Ora siti di rosi ‘ncurunati”.

Riconoscimento, il suo, non episodico e solo occasionale, ma come leitmotiv del suo parlarne, pure quando dice di valer poco anche come poeta per il fatto di essere un contadino ignorante. Un riconoscimento solennemente conclamato al momento dell’inaugurazione della R. Scuola tecnica di Cefalù il 4 aprile del 1886, e ancor più rimarcato il 20 Dicembre 1890, in riferimento all’aperturadel Liceo Mandralisca, quando giunge ad esclamare: “Eni veru ‘mmurtaliManniralisca, / lufunnaturi di chistuLiceu”.

GIUSEPPE TERREGINO