La fiaccolata che precede la grande festa del Patrono del paese si è appena conclusa, sul basolato del corso principale ci sono tracce di cera ancora tiepida, molle e appiccicaticcia, il cui odore si confonde con quello della polvere da sparo dei rituali fuochi d’artificio, che mettono paura ai bambini. La statua in miniatura del Santo Patrono è appena rientrata in chiesa, i fedeli si disperdono e rientrano a casa con aria mistica, ma soprattutto con il cuore gonfio di speranza.

L’attesa sta per finire e, fra poco più di un’ora, la magica sfera di cuoio diventerà protagonista di una delle notti più calde, esaltanti, entusiasmanti, epiche, intense, grottesche, avvincenti e leggendarie della storia italiana. Non solo sportiva. Chi c’era, quella notte fra il 17 e il 18 giugno 1970, non dimenticherà mai più quelle due ore e passa che, dalla mezzanotte a seguire, regaleranno emozioni, momenti di esaltazione e sconforto, polemiche e gioia, esultanza come solo il calcio. In quella notte italiana si farà la storia.

L’Italia è un Paese sospeso fra la fine dei favolosi anni ’60, quelli del Twist, del boom economico, delle estati in Versilia, della Capannina di Franceschi a Forte dei Marmi e della Bussola di Bernardini a Focette. Sono anni di grande ottimismo, di sogni e ambizioni, ma anche di radicali cambiamenti, di rivoluzioni e di Coppe dei Campioni vinte (2 ciascune da Milan e Inter). Sono anni di straordinario fervore culturale, musicale e politico. Reazionari e folli. I giovani hanno tanta voglia di socialità e di condivisione: sono meravigliosamente e senza tatuaggi irsuti, tribali e visionari. Portano avanti l’idea del collettivo, partecipando in massa ai grandi raduni rock, come quello di Woodstock nel 1969. Hanno voglia di sovvertire gli schemi, di infrangerli, partendo dal di dentro, ossia dalla famiglia.

Gli anni ’60 faranno spazio ai ’70, che saranno di tensione, terrorismo, morte e distruzione. Anni di incertezza e timore. Ma anche di crisi economica e di aumento a dismisura del deficit. Il 1970 è forse l’ultima, vera illusione, un bivio che porterà a una deriva di valori che farà da spartiacque. E’ il prologo dell’inizio della fine della grande illusione.

Prima, però, il 1970 regala lo scudetto del Cagliari e la partita del secolo. Mica pizze e fiche.  “E’ cominciata la semifinale fra Italia e Germania”: la voce calda e ovattata di Nando Martellini, che giunge da oltreoceano, via satellite, è il presagio a una serata storica. Vada come vada. La luce dello stadio Azteca di Città del Messico, dove sono le 16, è ingannevole: ma sta piovendo? Il cielo è coperto? Perché il pallone schizza via sull’erba come impazzito? “L’aria era irrespirabile”, confesserà poi chi era sugli altipiani cari a sua maestà Montezuma.

In Italia la situazione non è diversa: la serata è afosa, umida, l’aria si taglia a fette. In tutti i sensi. la Germania Ovest di Beckenbauer, Gerd, Mueller, Maier, Overath, Seeler, Schnellinger, fa paura. Ha eliminato nei quarti i campioni del mondo in carica dell’Inghiterra, rimontando da 0-2 a 3-2 nei supplementari; vuole il titolo, in modo da presentarsi al Mondiale in casa di quattro anni dopo da campione uscente.

I minuti passano e gli azzurri vanno avanti, nelle gambe dei tedeschi pesano i supplementari dei quarti contro l’Inghilterra. I ‘Panzer’ sono imballati e all’8′ Boninsegna li punisce, con un bolide da 22 metri. E’ l’inizio di una sfida senza esclusione di colpi, fatta di corpo a corpo, di conti in sospeso e da saldare, di uomini contro, nel corso della quale accade di tutto: si buca un pallone, quello bianco, che viene sostituito con quello a scacchi bianco e neri, attorno al terreno di gioco ci sono dei fiori – per tutto il perimetro – Albertosi si fa ammonire (è la prima volta nella storia, e sarà anche l’ultima); a De Sisti, con il passare dei minuti, vanno giù i calzettoni; Riva si butta a terra e non può più respirare altri oltre 2 mila di Città del Messico. Gli italiani incollati davanti alle tv in bianco e nero, con la voce di Martellini che assume toni sempre più drammatici, sudano e bevono. Bevono e sudano. Nessuno parla, forse per timore che i tedeschi, dall’altra parte del mondo, sentano e scatenino una guerra (sportiva, questa volta) a oltranza.

I ‘Panzer’ smaltiscono l’acido lattico e, con il passare dei minuti, avanzano a ranghi compatti, come un’armata; l’Italia arretra e si difende stoicamente. Se l’assalto è all’arma bianca, il catenaccio degli azzurri è con il coltello fra i denti. “Stringiamoci corte, siam pronti alla morte”, sembrano urlare i ragazzi del buon ‘Uccio’ Valcareggi. I bianchi portano avanti il pallone, prepotentemente, gli azzurri fanno muro davanti ad Albertosi, che vola da un palo all’alto e para anche l’impossibile. Il portiere dell’Italia ha una maglia grigia con un colletto slabbrato che lo fa sembrare uno scolaro.  Anche a lui – a lungo andare – si afflosceranno i calzettoni azzurri, anche per lui sarà la prima e ultima volta, quasi a voler simboleggiare l’unicità di quella partita assurda e folle, che deve tuttavia ancora regalare le emozioni più forti.

Ecco la fine. No, non ancora. Il 90′ è superato, l’arbitro messicano Arturo Yamasaki, buffo e confuso con quel suo foglio dove appunta ammonizioni e sostituzioni, fa proseguire. L’Italia butta il pallone nella metà campo dei tedeschi, il ‘mastino’ Schulz dà il pallone indietro al proprio portiere Maier, che rilancia. 90’43″…, 90’44″…, 90’45’… Ma quando finisce questo tormento? Gli azzurri soffrono e sbuffano, l’Italia intersa pure, aspettand il fischio. In milioni davanti alla tv, con frenetica impazienza, trepidano. I bambini litigano coi padri, perché sono quasi le 2 e, anche se l’indomani è la festa di San Calogero, bisogna comunque andare a dormire. L’orologio dell’Azteca è sistemato sotto le nuvole, altissimo, qualche metro sotto il cielo: scandisce i secondi, poi i minuti: 91’40″…, 91’41… 91’42″… Parte un cross dalla sinistra verso il centro dell’area azzurra, gli italiani trattengono il respiro, man mano che il pallone si avvicina al terreno, nelle tv spunta la sagoma irregolare di Karl-Heinz Schnellinger, libero del Milan, detto ‘Volkswagen’, che è lì perché vuole raggiungere prima gli spogliatoi (il sottopassaggio è dietro la porta di Albertosi), senza salutare i compagni di club, temendo qualche battuta spiritosa, ammesso che abbiano ancora fiato. ‘Volkwagen’ si trova il pallone sul piede e lo indirizza, con un movimento goffo, a scivolare, verso Albertosi, che resta impietrito e non vede più il pallone. Lo vedono però gli italiani ed è in fondo alla rete. Il sangue si gela e ai padri, se i figli vanno a letto, non importa più nulla.

“Che assurda partita”, dice Martellini, che è l’emblema della delusione e sembra il più rammaricato di tutti. Gli azzurri nemmeno si rendono conto di essere passati, in pochi minuti, dalla finale di domenica 21 giugno alla pericolosa appendice dei supplemetari contro i tedeschi. Lo choc prosegue: nei successivi 2′, quando Poletti – appena entrato, al posto di Rosato – anticipa Cera e Albertosi, depositando in porta il pallone del 2-1 a favore della Germania Ovest, con la complicità di Mueller, lo psicodramma sportivo è servito. L’Italia è a pezzi, ma il destino è dalla sua parte; non il pubblico, che tifa Germania, perché gli azzurri nei quarti hanno eliminato i padroni di casa del Messico.

All’8′ c’è una punizione guadagnata dagli azzurri che, persi per persi, senza nemmeno tanta convinzione, si tuffano in avanti: Rivera batte per sorprendere i tedeschi, ma Yamasaki fa ripetere; il Pallone d’Oro ribatte e questa volta, incredibilmente, la difesa teutonica è davvero sorpresa, perché Held respinge corto sui piedi di Burgnich, detto la ‘Roccia’, il terzino che gioca ruvido e non viene mai espulso. Tarcisio, così si chiama, raccoglie di sinistro e ciabatta verso Maier, poi ammetterà: “Se l’avessi colpito pulito, quel pallone non sarebbe mai entrato”. E’ 2-2. L’Italia si rianima, la birra nelle case riprende a scorrere a fiumi, la fiaccolata è un ricordo lontanissimo: ne sono successe di cose dalla processione.

Rivera lancia Domenghini, che fugge via con una corsa senza mèta, sembra posseduto, con quell’incedere selvaggio, vede Riva al centro e lo serve: ‘Rombo di tuono’ controlla, inganna l’implacabile Vogts con una finta verso sinistra e infila Maier. Poi corre – con le ultime energie senza sapere dove – e finisce fra le braccia di Rivera, che lo trascina a terra in un balletto quasi farsesco. L’Italia è avanti. 3-2. Minchia, ma che partita è? Mai vista in tv una cosa simile. Il secondo supplementare si apre con un colpo di reni di Albertosi, l’ennesimo, che alza in angolo in colpo di testa di Uwe Seeeler: questi tedeschi non muoiono mai, mannaggia. Angolo dalla destra, ancora testa Seeler, deviazione di Mueller verso il palo alla sinistra di Albertosi, dove è appostato Rivera. E qua si apre un altro episodio di una storia interminabile. Il ‘Golden boy’, con una torsione del busto, accompagna il pallone verso fuori. No, il pallone è dentro. E Albertosi si scatena, imprecando contro quello che, quattro anni dopo, sarebbe diventato suo compagno nel Milan. “Figlio di puttana, che cazzo hai fatto?”, gli urla il portiere del Cagliari che, a fine torneo, una giuria di donne, nominerà il più bel calciatore del Mondiale messicano. C’è una foto che ritrae il portiere azzurro con i pugni chiusi che, forse, per un attimo ha pure pensato di uccidere il malcapitato Gianni. L’Italia lo avrebbe perdonato. “Adesso mi tocca andar su e segnare”, si lascia scappare Rivera, mentre in tribuna Gianni Brera (pro-Mazzola e anti-Rivera) litiga con Gino Palumbo (pro-Rivera e anti-Mazzola), e viceversa. Quell’adesso mi tocca andar su e segnare, prenunciato da Rivera, sarà un presagio. Ma di quelli buoni, però, anche se l’Italia non può saperlo.

Palla al centro, Rivera vuole saltare tutti i tedeschi, uno a uno, come birilli, ma non può (“vidi un muro di maglie bianche davanti a me, capìi che era meglio rinunciare”); serve a sinistra per Facchetti, che dà a Boninsegna, controllo e scatto per l’ennesimo corpo a corpo con Schultz. Il pallone finisce al centro dell’area, in una specie di terra di nessuno, dove c’è un vuoto, ma dove c’è Rivera che, con un piattone di destro stilisticamente inapprezzabile, spiazza Maier.

Il trionfo è servito, perché la Germania questa volta va ko e non ci riprenderà più. La notte si colora di azzurro e si trasforma in delirio collettivo, da Ragusa a Torino. Non esistono pro o antidivorzisti, non esiste destra o sinistra, non esistono ceti sociali, non esistono ‘Breriani’ o ‘Palumbiani’, esiste solo una Nazione che, per la prima volta, appare davvero unita. E ci voleva una partita di calcio, anche se leggendaria, a sancire questa coesione territoriale. Anche alla processione di San Calogero, il pomeriggio successivo, si parlerà di Italia-Germania Ovest 4-3.