Con una battuta tra il serio e il faceto solevo dire: la matematica serve a far bene le cose belle e a rendere belle le cose buone. E’ ovvio che pochi facevano caso a una battuta del genere. Dato che essa era volta a imbonire una materia di studio, ostica e indigesta ai più, che con l’estetica sembrava  – nella mentalità corrente – avesse poco a che fare. Ma ciò voleva dire disconoscere la cultura del mondo classico – della Grecia per l’appunto – in cui quello delle proporzioni geometriche era un canone che rendeva inattingibili le vette dell’arte di Fidia o di Prassitele, oltre che sommamente ammirevole la mole del Partenone.

E ignorare anche quel carattere umanistico della matematica di ogni tempo, così evidenziato da uno dei più illustri accademici del secolo ventesimo quale fu Beniamino Segre (1903-1077): «Gli aspetti logici, estetici e propriamente filosofici della matematica – misconosciuti da Croce che riteneva tale disciplina basata solo su pseudo-concetti – hanno tanto valore educativo    e rappresentano tali conquiste dello spirito umano, da dovere trovare posto in qualsiasi insegnamento che voglia dirsi veramente formativo ». Questo egli diceva. Aggiungendo anche che «Il mondo astratto delle matematiche è forse non meno ricco e suggestivo di quello fisico e altrettanto meraviglioso e fantastico di quello mitologico…. le avventure del pensiero da cui è, ad esempio, scaturito il calcolo infinitesimale o quelle che, a partire dalle geometrie non euclidee, hanno condotto alla teoria della relatività, sono tra le più affascinanti e mirabili ed onorifiche per lo spirito umano».

Non meno lusinghiero sul lato umanistico della matematica il giudizio espresso da D.E. SMITH nel saggio Matematici e poeti, pubbli­cato a New York nel 1947, dove si legge: «La matematica è generalmente consi­derata proprio agli antipodi della poe­sia.  Eppure la matematica e la poesia sono nella più stretta parentela, perché entrambe sono il frutto, dell’immagina­zione: la poesia è creazione, finzione; e la matematica è stata detta da un suo ammiratore la più sublime e la più me­ravigliosa delle finzioni».

E non può essere considerato un semplice caso che il poeta italiano più incline agli studi scientifici, quale fu Giacomo Leopardi, sia riuscito a dare la espressione più alta di quello che è stato il rovello più problematico del pensiero matematico: l’INFINITO. Dinanzi al quale, entrambi, il matematico e il poeta, sono per un verso attratti come dal fascino dell’ignoto ed en­trambi restano inibiti o sgomenti dall’immensurabi­lità dell’essere propriodi una realtà che lo spirito sente a sé affine, ma da cui l’intelligenza razionale teme di essere sover­chiata.

Di fronte a questi giudizi resta in qualche modo limitativo quello dato da Andrea Vico nell’Anno Mondiale della Matematica, che caratterizza questa disciplina come L’ELEGANZA DEL PENSIERO. Un titolo di un suo articolo che, però, taglia corto sul dilemma se la matematica possa essere considerata “disciplina umanistica” o sia soltanto una tecnica “tecnica operativa”. Dato che si tratta dell’eleganza del lato più peculiare dell’essere umano, rispetto al quale diventa pure secondario il fatto che la matematica sia “la scienza più astratta e formale, ma anche la più utile. …» . E che “La disciplina dei numeri diventa sempre più popolare e seguita, anche in Italia, e mostra con orgoglio quanto è importante per la vita quotidiana di tutti noi”.

Riguardo al quale aspetto, ci piace richiamare ancora una nota di Beniamino Segre che, dando la misura della statura morale dell’uomo, mette in evidenza la sollecitudine dell’educatore per il mondo giovanile: « E neppure conviene sorvolare sul valore altamente educativo e persino morale della matematica, la quale indirizza i giovani alla precisione ed alla sin­cerità, alla ricerca disinteressata e all’assenza dei compromessi, lasciando loro intravedere e facendo loro apprezzare i misteriosi esaltanti legami fra  pregi estetici ed applicazioni pratiche».

Una nota, questa, che, in un momento di grande difficoltà come quello che sta attraversando il genere umano in ogni angolo del mondo, deve far considerare improponibile il confronto tra la categoria dell’utile e quella che la trascende nella realtà sovrasensibile dell’umana natura. Che non conosce differenze di ceto e di età e non ammette discriminazioni utilitaristiche, essendo unica, assoluta e immensurabile in ciascuna individualità di questa specie.

GIUSEPPE TERREGINO