Il 3 novembre abbiamo ricordato la Giornata Internazionale delle persone diversamente abili, è utile per questa occasione parlare della pet therapy.

Un po’ di storia…..

Con il termine pet therapy, neologismo anglosassone, si indica letteralmente la terapia dell’animale da affezione , dall’unione dei due termini: pet, che significa animale domestico, e therapy, che significa terapia.

Il termine pet therapy è stato coniato dallo psichiatra americano Boris Levinson nei primi anni ’60 e letteralmente significa “terapia dell’animale da affezione”.

La storia dell’uomo e del suo rapporto con gli animali risale alle epoche preistoriche, periodi della vita umana dove l’individuo se ne serviva per lavorare, per procurarsi il cibo, per controllare i propri greggi e armenti.

In altre epoche l’animale, portatore di grande energia e potere, veniva sfruttato per rituali di guarigione o in occasioni ludiche, sacre e religiose.

Nel 1792 in Inghilterra, presso il York Retreat Hospital, lo psicologo William Tuke incitò i pazienti malati mentali a interagire e a prendersi cura di piccoli animali. Ciò favorì un migliore autocontrollo del paziente e scambio affettivo.

A metà del 1800, in Germania, presso il Bethel Hospital, si studiarono i comportamenti di alcuni malati epilettici e disabili che nel loro quotidiano entravano in contatto con alcuni gatti, cani, cavalli e altri piccoli animali.

Nel 1875, in Francia, il medico Chessigne prescrive per la prima volta l’equitazione per persone affette da problemi neurologici. Entrati nel XX secolo la pet therapy cominciò ad assumere una certa importanza nel miglioramento del comportamento dei pazienti.

Nel 1919, dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, negli Stati Uniti d’America, al St. Elisabeth’s Hospital, vennero usati i cani per curare i malati di schizofrenia e depressione.

Nel 1953 il neuropsichiatra infantile Boris Levinson constatò che prendersi cura di un animale può aiutare a calmare l’ansia, trasmettere calore affettivo e aiutare a superare lo stress e la depressione, ovvero da accarezzare e coccolare, azioni che procurano un piacevole contatto fisico, ovvero uno dei principali fattori di comunicazione interpersonale e interspecifica, andando a stimolare la creatività, la curiosità e la capacità d’osservazione, soprattutto nei bambini.

Levinson, proprietario del cane Jingles, rilevò, fortuitamente, i benefici su un bambino autistico nella sua relazione quotidiana con il cane stesso che gli apportava rilassamento e distrazione rispetto a quando non interagiva con l’animale. Questa esperienza segnò l’avvio di approfondite ricerche, studi e attività molteplici. Nel 1961, Levinson pubblicò il suo famoso libro The Dog as Co-Therapist, in cui per la prima volta si fece cenno alla Pet Therapy, mentre nel 1975, i coniugi Corson, entrambi psichiatri americani, che avallavano le teorie e gli studi di Levinson, pubblicarono la Pet Facilitated Therapy.

Erika Friedman, nel 1977, rivolse particolare attenzione a un gruppo di persone che avevano superato un infarto notando una positiva relazione tra chi possedeva un animale da compagnia e l’essere sopravvissuto all’attacco di cuore. La studiosa rilevò come la vicinanza dell’animale favorisse il rilassamento del soggetto diminuendo la possibilità di infarto cardiaco.

Nel 1997 venne fondata in Australia la Delta Society, che si occupa di studiare gli effetti terapeutici legati alla compagnia degli animali.

Nel 2002 venne pubblicata la Carta Modena: Carta dei valori e dei principi sulla pet relationship. Questo lavoro vide la partecipazione dei massimi esponenti, esperti ed Enti in materia di relazione uomo-animale e dei diritti da salvaguardare di entrambe le parti.

Tra le direttive più significative possiamo citare quelle del 2007 dall’IAHAIO, che ha elaborato e approvato delle Linee guida scaturite dall’undicesima Conferenza mondiale sulle interazioni uomo-animale di Tokyo.

Come funziona la pet therapy?

Si tratta di una pratica di supporto ad altre forme di terapia tradizionali che sfrutta gli effetti positivi dati dalla vicinanza di un animale a una persona.

Per pet therapy, detta anche zooterapia, si intende quindi una co – terapia che si affianca alle terapie tradizionali, ai trattamenti ed agli interventi socio-sanitari già in corso.

Essa non rappresenta una terapia a sé, ma si identifica come un intervento sussidiario che aiuta, rinforza, arricchisce e coadiuva le cure tradizionali e può essere impiegata su pazienti di qualsiasi età ed affetti da diverse patologie con l’obiettivo di miglioramento della qualità di vita dell’individuo e del proprio stato di salute, rivalutando, nel contempo, il rapporto uomo-animale.

Ulteriore scopo di queste co – terapie è quello di integrarsi con le normali attività terapeutiche facilitando l’approccio delle varie figure medico-sanitarie e riabilitative soprattutto nel caso in cui il paziente non dimostri collaborazione spontanea.

La presenza di un animale permette in molti casi di consolidare il rapporto emotivo con il paziente, favorendo il canale di comunicazione paziente – animale – medico e stimolando una partecipazione attiva del soggetto stesso.

La pet therapy viene intesa come un intervento dolce che stabilisce armonia tra uomo e natura apportando grandi benefici all’uomo. Spesso viene definita come un complessivo progetto di Interventi Assistiti con gli Animali (IAA).

Chi ne trae maggiori benefici?
Pet therapy e bambini
Relazionarsi in maniera positiva con un animale da compagnia può essere molto importante per lo sviluppo cognitivo ed emotivo del bambino. Questa pratica, infatti, gli consente di sviluppare nuove e più efficaci abilità di apprendimento e, nel contempo, di imparare a prendersi cura di una creatura diversa da sé. D’altra parte è stato dimostrato che la vicinanza con un pet favorisce nel bambino la creatività e la capacità di osservazione. Un percorso di educazione e riabilitazione con la pet therapy, del resto, può rivelarsi fondamentale per i bambini con disabilità: grazie al rapporto affettivo autentico e incondizionato con l’animale, infatti, il bambino può trovare la forza e le motivazioni necessarie ad affrontare con nuovo entusiasmo i piccoli problemi quotidiani.  
Pet therapy e anziani
Gli animali da compagnia sono in grado di migliorare anche la qualità della vita delle persone anziane: grazie al gioco e all’accudimento è infatti possibile ritrovare la propria stabilità emotiva, l’allegria e il buonumore. Non a caso oggi sono numerose le case di riposo che hanno aperto le porte a cani e gatti: se un tempo l’anziano si occupava di figli e nipoti, oggi si prende cura degli animali domestici.
E per i ragazzi con disabilità?
Nelle persone affette da autismo e che sono state coinvolte in un programma terapeutico basato sulla interazione con un pet, è stato riscontrato un significativo miglioramento dell’attenzione e una maggiore padronanza nel controllare il proprio corpo. Si tratta di una immensa conquista per questa categoria di pazienti, i quali, generalmente, sono incapaci di concentrarsi e compiono movimenti estemporanei e violenti che non sono in grado di gestire.
Applicazioni
La pet therapy è una pratica terapeutica che si avvale degli animali domestici (e non solo) per migliorare il benessere psico-fisico degli individui. In linea generale essa è in grado di infrangere il silenzio e di promuovere il pensiero positivo: basandosi, infatti, su un linguaggio basic e ripetitivo esercita nel parlante un effetto calmante e rassicurante. L’uso terapeutico degli animali da compagnia, in particolare, può essere molto utile per i soggetti colpiti da depressione: gli animali, infatti, producono una serie di stimolazioni utili a spezzare i circoli viziosi tipici del depresso, offrendogli spunti per uscire dall’isolamento e per migliorare gradualmente il tono dell’umore. I benefici della pet therapy sono efficaci anche nei soggetti affetti da morbo di Alzheimer. È stato dimostrato, infatti, che gli animali da affezione, sono in grado di migliorare i parametri comportamentali e cognitivi dei pazienti affetti da Alzheimer, ricoverati in apposite strutture sanitarie.
Come funziona
Bisogna partire dal presupposto che il rapporto animale-paziente si basa sulla totale assenza di pregiudizi e su un profondo legame affettivo, che rassicura, aumenta l’autostima e favorisce le relazioni sociali. Il pet, in altri termini, stimola le energie positive del paziente e gli rende più accettabile il disagio, sia esso fisico o psichico, di cui è portatore.
La Conferenza Stato Regioni ha approvato l’Accordo e le linee guida nazionali pet therapy e interventi assistiti con animali, che prevedono le medesime regole sull’intero territorio nazionale e stabiliscono gli standard qualitativi di riferimento per la corretta applicazione di questa terapia di supporto, allo scopo di tutelare sia i pazienti che gli animali da affezione.
Quali sono gli animali più indicati?

Fondamentale è individuare l’animale corretto per il singolo paziente in base alle preferenze personali, alle capacità psico-fisiche, all’analisi delle eventuali fobie specifiche, alle allergie e in base alla risposta emotiva nelle prime sedute. Ad esempio nel caso si dispongano di più cani si deve definire l’abbinamento cane-paziente tenendo conto della taglia del cane, dell’indole, del tipo di pelo e così via.

Viene evidenziata la necessità di utilizzare animali detti da affezione e non animali selvatici perché come stabilito dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’animale quest’ultimi si sono evoluti in ambienti naturali e non antropici come quelli in cui interviene la Pet Therapy, quindi l’utilizzo di animali non di affezione rappresenterebbe una privazione della libertà.

Nella pet therapy è possibile utilizzare anche altri animali come:

  • gatti/cani/conigli;
  • cavalli (ippoterapia): Il rapporto millenario che l’uomo ha stabilito con il cavallo per facilitare il lavoro dei campi, la caccia, gli spostamenti e le attività belliche, con il tempo ha assunto finalità diversificateludiche, sportive e terapeutiche.

Il cavallo, dapprima percepito come strumento di sussistenza e simbolo di ricchezza, diviene compagno, amico e facilitatore terapeutico.

Le proprietà benefiche del rapporto con questo animale sono applicate formalmente in ambito medico a partire dal secolo scorso, ma la storia e la letteratura sono piene di riferimenti ai benefici dell’andare a cavallo.

Secondo quanto riportato dai testi sull’ippoterapia, la prima fonte è Ippocrate, che, già nel V-IV secolo A. C, esortava a fare cavalcate per  risolvere l’insonnia e altri problemi del corpo e della mente.

I benefici del rapporto con il cavallo sono stati progressivamente studiati dalla medicina moderna fino ad arrivare alla creazione di una disciplina specializzata e alla formazione di professionisti in materia.

 In che consiste l’ippoterapia?

Il termine “ippoterapia” si usa comunemente per riferirsi ad un tipo di pet therapy che coinvolge tutte le forme di relazione uomo-cavallo a scopo terapeutico. Ma occorre fare una distinzione per comprendere la complessità di questa co – terapia.

L’ippoterapia, infatti, è soltanto una delle discipline – o fasi – che compongono le attività terapeutiche complementari della riabilitazione equestre, indicata per persone affette da patologie e disabilità di diverso tipo (come paralisi cerebrale infantileautismosindrome di Down, anoressia).    

  • L’ippoterapia propriamente detta è rivolta sia a persone con disabilità lievi e patologie derivate da incidenti che successivamente potranno passare alle altre fasi della riabilitazione, sia a persone con patologie più gravi. La terapia ha luogo sia a terra che a cavallo: in un primo momento sono previste attività di avvicinamento e cura dell’animale, per passare poi ad esercizi in sella.
  • La rieducazione equestre è rivolta a persone con disabilità neuromotorie di grado lieve-medio e a persone con disturbi di tipo cognitivo comportamentale. Questa fase della terapia, più avanzata rispetto all’ippoterapia, consiste in un ruolo attivo del paziente nel condurre il cavallo.
  • Equitazione sportiva per disabili: in questa fase si realizzano esercizi di equitazione che prevedono un buon grado di autonomia del disabile e può consistere in attività dimostrative ed agonistiche. 

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