Diversi anni fa ho conosciuto Antonino Cicero come poeta e con lui ho condiviso diverse esperienze relative ai linguaggi dell’arte: l’ho apprezzato subito per la sua capacità di coniugare eleganza e raffinatezza formale con impegno culturale, sociale e di cittadinanza. Una poesia, la sua, mai distante dalla realtà, sintesi di ispirazione e ragione, lirismo e impegno, sperimentazione e tradizione, ricerca linguistica e uso del registro colloquiale, in grado di dipingere con le parole e di tessere mosaici di consapevolezza.
Incontro nuovamente Antonino Cicero adesso, ma in qualità di autore di un’opera narrativa, La devozione di Turi, Edizioni Arianna, 2020, che svela, però, tutto il suo percorso poetico poiché la prosa si lascia contaminare dalla poesia lirica, epica e tragica.
E vorrei partire proprio dalla tragedia a cui, probabilmente, l’autore si è ispirato nella strutturazione della sua opera, con un prologo, tre episodi, due intermezzi e un’appendice.
Nella Devozione di Turi, il prologo costituisce la parte più complessa per struttura e registro linguistico e presenta, come un antefatto, la situazione spazio-temporale in cui si inserisce la vicenda di Turi, con un andamento drammatico in cui l’alternarsi di due livelli di narrazione è evidenziato tipograficamente ora dal tondo ora dal corsivo: e proprio nelle parti in corsivo si ha l’impressione di ascoltare un’altra voce narrante che commenta, riflette, sottolinea, evidenzia ciò che è stato già espresso, quasi un coro della tragedia del V secolo.
Una presentazione, dunque, in cui inserire la giornata di Turi, in un tempo di mezzo e in terre di mezzo: a metà del millennio dopo la scoperta del “varco che non fu India ma Merica”, tempi di buio e di luce (il Cinquecento e il Seicento), nelle terre di mezzo (ripresa di una sua bellissima poesia, in cui campeggia il maestoso verso “la regale transumanza della storia”, citato da Giuseppe Oddo nella postfazione del libro), in quel posto che fu contea (riferimento alla terra di Antonino Cicero, Collesano), ma una contea come tante altre e che può essere un posto qualunque in cui “uomini e donne piansero su una terra che fu sistema”. Il particolare e l’universale convivono perché, se durante la lettura avvertiamo la presenza della nostra terra di Sicilia e della nostra storia, sentiamo anche che si tratta di una situazione universale, valida sempre e ovunque, quando l’ingiustizia e l’imbroglio creano “piccoli uomini tracciati dal sole lungo tutta la linea del corpo” e “porci appesantiti dalla ricchezza e dai titoli”, i berretti e i cappelli di verghiana memoria: una contea-mondo, insomma.
E l’attenzione va verso quel mondo di “poveri, poveracci, poverazzi”:
Il mondo di Turi era quello: senza screpolature, senza fantasie da menestrelli. E i pidocchi di quelle giornate senza peso, disegnavano così i dottori della terra: «Contadini che sturano il naso per sentire il loro corpo affondarvi. Sanno tutto, eppure niente. Cuntano e non leggono, scrivono a mezz’aria, pigliano la via al mattino e pure alla sera; rientrano a casa quando non c’è più giorno e ripartono quando c’è ancora notte. Guardano la terra e pure la propria donna, che riempiono di seme per altri occhi che guarderanno la stessa terra. Alcuni, di questa terra arsa e pure buona, ne fanno idillio; altri, tutti storti e squadrati, ne fanno matrigna tigna, tinta, pilusa come le tragedie che soffocano chi ne prende pezzi e ne fa assaggi».
E quei poveri devono per necessità fare il conto con il valore non solo delle cose, ma anche delle persone, perché “un figlio serviva, ma la moglie di più”: “la moglie è muta e santa perché in pancia ne ha più di uno”.
Seguono i tre episodi e i due intermezzi. Di questi ultimi, il primo parla della devozione di Turi, quindi esplicita, commentando, quanto accade nel racconto ed evidenzia la caratteristica fondamentale di Turi, la devozione, parola chiave dell’intera opera. Una devozione diffusa che riguarda tutti i compaesani tutti i giorni, perché un santo a cui essere devoti si trova ogni giorno dell’anno. Turi, però, aveva la consapevolezza di avere una devozione diversa, vera, perché gli altri credevano solo nell’ora del bisogno e questo per lui era imbrogliare; lui, invece, devoto alla Madonna, quella del quadro della chiesa, lo era sempre: e anche quando, pur avendo tanta devozione, gli capitava qualcosa di negativo e di ingiusto, lui pensava che la Marunnuzza aveva chiuso gli occhi per un attimo e si era distratta e lui la perdonava per questo. E fantasticava a tal punto da desiderare di entrare in quel quadro, senza recare disturbo, accanto ai gigli bianchi profumati.
Turi, che zappava le terre di padre Vincenzo, aveva anche assunto il compito di tenere sempre accesa la fiammella davanti al quadro, sempre, sempre, come gli ricordava il prete forestiero di Caltabellotta. Ma un giorno Turi si distrasse, l’olio cadde e per un attimo la fiammella si spense, con conseguenze devastanti nel suo animo:
«Ma che ho fatto, che ho fatto?» ripeteva con l’insistenza dei camurriati di testa.
Era terrorizzato e quel freddo dentro lo immobilizzava. Riuscì a tirar via tutto quel disastro e scappò fuori. Vide l’asina ferma nella sua indolenza che lo fissava con l’aria malandata e maledetta del sornione. Cominciò a piangere Turi, che ogni lacrima gli sembrava una botta di pietra sul viso. Lacrime che scavavano solchi come lo scalpellino dentro al marmo. Una statua sonnecchiante nella sua dabbenaggine, travasata da una disgrazia all’altra.
In groppa faceva fatica a star dritto e si accasciò stringendo quella criniera nera spelacchiata, da far impazzire l’animale dalla rabbia. Avrebbe gridato quella bestia, ma sapeva che sopra ne portava una ancora più malconcia e disgraziata; una povera bestia che manco allo specchio avrebbe potuto guardarsi.

L’asina, la scecca, era la fedele compagna di Turi: lui era molto affezionato a quell’animale che, nella sua scala di valori, occupava un posto importante perché era ricordo di suo padre. Come lui, l’asina campava d’aria e aveva un mondo circoscritto: la terra quando guardava in basso, il cielo quando guardava in alto per capire il tempo. E l’asina amava Turi, lo comprendeva perché “conosceva quello sguardo sperso che non vuol dire niente, ma che fa male”.
Il secondo intermezzo (tra gli episodi due e tre) parla dell’amore di Tuti, della ragazza di cui era innamorato e che avrebbe voluto sposare: ma la ragazza, Maria, era “pigliata” e padre Vincenzo, con cui Turi si era confidato, gli aveva detto di lasciar perdere e che non era la ragazza giusta. Ma lui voleva Maria:
A pronunciarlo quel nome ̶ Maria ̶ le labbra non avevano bisogno di scomporsi. Bastava sfiorarle l’una con l’altra e soffiare fuori un filo di voce. Maria era un sussurro, un sussulto sordo, ovattato, una conquista dentro. E a ripeterlo a occhi chiusi, Turi immaginava il bianco delle nuvole che con le loro forme sganciavano dal cielo un mondo mai visto prima. La leggerezza del tocco e la purezza di quelle mani ̶ di Maria ̶ che tiravano via la brocca dalla fontana erano il candore soffice del suo nome, di quel sussulto che non lo abbandonava mai.
Maria era una consonante, un suono di corde, un tintinnio di vetri infranti. Le foglie d’autunno straripavano ai piedi degli alberi e, appena secche, quel fruscìo morbido era ancora la gioia di quel nome.
Maria era tutto quello che di bello Turi riusciva a vedere e sentire in natura. Era l’aria stessa. Perché anche l’aria ha il suo suono, il suo nome. Non è un filo invisibile che è brezza o venti sgraziati per le volte che voglia qualcuno lassù. L’aria è il senso della misura, della spensierata misura. Maria era tutto questo per Turi.

Questo povero contadino, con mezza casa e una scecca, che sa che “la fame e il lavoro duro non hanno misura”, dunque è uno di quelli, nella contea, che “pensava alla gioia di parlarsi e di guardarsi negli occhi”.
Nei tre episodi si sviluppa la narrazione vera e propria: si comprende chi è Turi, come era diventato contadino con mezza casa e un’asina, come si era ritrovato orfano, come il padre, il bottaio Cosimo, era stato imbrogliato e gli era stata tolta la bottega e come “togliendo la bottega a un mastro se ne ha la gioia di avere ucciso un uomo”. Turi appartiene ad una famiglia di “vinti”, prendendo a prestito l’espressione verghiana, di umili vittime dei prepotenti, pensando a Manzoni: Turi, costretto a lavorare la terra di padre Vincenzo, anche lui appartenente ad un “sistema” per cui gli uomini non sono tutti uguali e come gli diceva il suo padre spirituale, “le buone novelle sono del Signore, sono proprietà sua e ai cafoni non le devi dare. A loro vanno solo i sacramenti”. Padre Vincenzo, ossessionato dal sole, dalla necessità di sapere se fuori c’è il sole. Il sole, la luce opposta al nero della sua veste, dei suoi occhi, dei suoi capelli e delle sue parole “nere come corvi nella stanza” e a qualche segreto che porta dentro, al buio che ha vissuto e che viene evocato solo nell’appendice.
La sera in cui Turi tornò a casa dopo il dialogo con padre Vincenzo che gli aveva detto che la ragazza di cui era innamorato era “pigliata”, non riusciva a darsi pace, perché oltre alla terra, è dura anche la vita. Aveva un peso dentro, “uno strano manto che gli stava stretto”. E il senso di colpa per la fiammella che aveva lasciato spegnere per una distrazione e la sensazione che tutti i figli pagano sconosciute e arcane colpe dei padri.
Nell’episodio due sono presenti tanti personaggi, come Saro matto e la sua passione per i venti, come il vento che quella sera agitava Turi:
Saro matto – così lo chiamavano per via delle sue fisime con i venti. Per lui i venti erano acqua senza tempo e ogni giorno con la lingua ne tastava la bontà e la purezza, al centro della strada maestra. E li metteva dentro a una buatta di vetro, che agitava davanti a sé come per prendere qualcosa; li conservava tutti, ben catalogati, quasi copia sciacquata di un dottore sapituri o di un farmacista di puntiglio… E per pazzo lo pigliavano e per pazzo lo lasciavano. Ma non era folle, no. Era poeta, a modo suo.
[…]
Quella sera Turi, al suo rientro dalla casa di padre Vincenzo, non era riuscito a trattenersi. Non l’aveva mai sbattuta così, lasciandosi consumare la porta dietro le spalle.
Quella sera c’era uno strano vento; strano e prepotente, che gli portava via ogni logica. La sua asina non ragliava manco per la buona notte.
[…]
La rabbia aveva adesso lasciato il posto a una desolazione sconfinata e come le gradazioni di un pittore, montava a paura. Aveva paura Turi dentro a quella casa che un tempo era stata di suo padre Cosimo e di sua madre Angelina; lì, solo con la fiammella dell’unica candela, con l’asina fuori e gli attrezzi per sputare fatica e sudore sulla terra di padre Vincenzo.
Adesso stava lì, così, con quel niente dentro e con quel niente fuori.

Il sole nel primo episodio, il vento nel secondo, la luna nel terzo, quando si compie tutto in una notte, ripartendo da “quel niente dentro e quel niente fuori” di Turi.
Qui l’aspetto lirico e l’aspetto tragico dell’opera cedono il posto all’epica, al patrimonio collettivo di conoscenze e, per certi versi, il racconto si fa cunto, con le leggende (la truvatura), i briganti e le guardie, i tumulti della povera gente “come quando sta per arrivare un temporale”, in un’aria nera e in un tempo che a tratti pareva fermarsi o dilatarsi quanto più fosse possibile e, infine, con il miracolo che “lenisce i fumi della tragedia”.
Molti sono i riferimenti alla storia di Collesano ma, come ho già detto, è una storia che assume un carattere fortemente simbolico e universale. Io, però, a questo punto devo necessariamente fermarmi per lasciare al lettore il gusto della lettura e della scoperta.
La devozione di Turi si legge con grande piacere: l’ho già definito una poesia in prosa, un’opera breve dove, però, ogni parola ha il peso della cura e della ricerca. Soprattutto nel prologo e negli intermezzi, l’uso di assonanze e consonanze, le frequenti anafore, l’effetto accumulazione dei polisindeti, la disposizione di parole e frasi in maniera tale da creare effetti di climax ascendente ne fanno un lavoro prezioso, un mosaico dove ogni singola piccola tessera contribuisce alla realizzazione di un unico disegno, dove vengono presentate le diverse sfumature dell’animo umano, le certezze e gli inevitabili dubbi, ma tutti unificati nell’unica parola veramente conosciuta da Turi perché “padre Vincenzo pronunziava amen ogni volta che finiva la benedizione. Ma la devozione non finisce. La devozione non ce l’ha l’amen. Questo diceva Turi”.

Rosalba Gallà